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venerdì 13 luglio 2012
"Il Milanese e l'unità d'Italia" di Marco Valle
Sapessi com’è strano il Risorgimento a Milano…
☞ Francesco Marotta del 11 luglio 2012✎ Nessun Commento
C’era una volta l’Italia. Che di suo, in un panorama policromo, rinascimentale, seppe a suo modo realizzare un’unificazione. Un’alternanza che vide visi e forze, imperi e coraggiose movenze strategiche, avvicendarsi in un dedalo inizialmente incompiuto. Come tale, riverbero positivo di istanze bonapartiste e detrazioni austro-ungariche.
“Il Milanese e l’Unità d’Italia”, a cura di Marco Valle (una firma che i lettori di Destra.it ben conoscono…), edito da Touring Editore, non fa parte dei libri dalle facili esaltazioni rinascimentali. Lo si capisce dalla prefazione del Presidente della Provincia Guido Podestà e dell’assessore alla cultura Umberto Maerna e dall’introduzione di Stefano Zecchi. Un resoconto non didascalico dei tre conflitti per l’indipendenza italiana, in cui i tratti sconosciuti di molti protagonisti dell’Unità non si confondono unicamente con le molte personalità che videro Milano una città all’avanguardia, al centro di un’unione non priva di instancabili fatiche.
Uno scritto concreto in grado di approfondire cause e concause, personalità e destrezze in uno scenario in cui l’Italia, se così si poteva chiamare, era una rappresentazione, un coagulo di stati e rivendicazioni e una città su tutte: Milano, polo catalizzatore delle intelligenze e dell’inflessibilità tenace dell’epoca, dove lo sfarzo lascia il posto alla polvere, nell’unico intento di unire tre colori, tre aree ben distinte. Un’Europa in subbuglio in preda a rivoluzioni impossibili; come unico sfondo un movimento innovatore, un’intelligenza artistico culturale, capace di discernere il proprio pathos, in cui la presenza bonapartista seppe, senza ombra di dubbio, illuminare, donando, milanesità, italianità, priva di fervori da lumi incontrovertibili. Gli stessi, a loro volta, propensi a intagliare la Modernizzazione Albertina, senza riuscire, nell’insieme algebrico a condizionarne la valenza.
Una colazione insolita in Foro Bonaparte: eventi e compartecipazioni messi a nudo senza nessuna inversione ideologica, senza troppi Wafer o Gianduiotti, intinti in un nettare idilliaco in cui Zeus e Odino, Carloforte e Scilla, Milano, Roma, Trieste e Gorizia, seppero miscelare un’idea, l’esaltazione della completezza.
Incredibilmente in un testo dalle poche interpretazioni filologiche, un’immagine astratta, lontana, ma al tempo stesso viva e cosciente, accomuna ogni capitolo del libro e ogni sua istantanea. Una traccia e un segmento napoleonico, dalla sua ultima dimora, l’isola nel centro dell’Oceano Atlantico, Sant’ Elena. Da Memoriale e da genialità: «Lui rappresentante della Rivoluzione ?La rivoluzione spezza i vincoli con Roma: egli li riannoda». Riuscendo ad accomunare la cultura europea e non quella definita comunemente occidentale, agricola e sociale, dell’industria, ripiantando l’unicità di popolo e della civitas ( civiltà ?) persa da secoli.
“Il Milanese e l’Unità d’Italia” sorprende e a lunghi tratti lascia immaginare scenari diversi da quelli narrati. Il Risorgimento ambrosiano — come Valle sottolinea — è soprattutto un dibattito politico e culturale denso, complesso e plurale che segna in profondità l’intero movimento nazionale e il giovane Stato unitario. Le intelligenze del tempo — da Romagnosi a Cattaneo, da Ferrari a Casati e allo stesso Manzoni — immaginano il futuro e propongono agli italiani percorsi nuovi e moderni, spesso discordanti tra loro ma sempre importanti.
Come ricorda Stefano Zecchi nella sua prefazione, in quegli anni tormentati Milano è il laboratorio italiano della contemporaneità: le riviste, i convegni, gli editori anticipano l’avvento della “ civiltà delle macchine” e offrono ai segmenti dinamici della società idee, progetti, intuizioni per realizzare un cambiamento epocale. Come un fiume impetuoso, la spinta unitaria si intreccia con la modernità, travolge equilibri obsoleti e traccia paesaggi imprevisti e contradditori.
Non a caso dalle temperie risorgimentali nel Milanese prendono forma nuove figure sociali. Mentre l’aristocrazia cede definitivamente il passo, avanza la borghesia e si affacciano gli operai e il mondo contadino. Ma vi è di più. Nei salotti o sulle barricate, nelle redazioni e tra le cospirazioni le donne — d’ogni estrazione ed età — prendono voce, diventano protagoniste.
Tra i circoli d’intellettuali e riviste più o meno esaminatrici di un possibile intento comune, lascia però attoniti la componente mazziniana, proposta in chiave irriverente ma approfondita, quasi vittima di una pax asburgica dal titolo anonimo e di un intermezzo dal nome di Giovine Italia, resa infelicemente settaria. Contrariamente, un Risorgimento importante ma concluso, se così possiamo ancora oggi attribuirgli una parvenza finale di percorso storico, nella sua etimologia storica-culturale di popolo, capace di comprendere al suo interno, sia Mazzini e Garibaldi, quanto Pisacane e Cattaneo. Una piacevole empasse che divide soventi volte le due proposizioni rinascimentali tra popolo e borghesia, generalmente involutive. Da congiungere invece, in una linea direttrice che unifica i quattro personaggi sopraccitati, lo stile letterario ed etico di Carducci e di Papini.
L’alibi fa lo scrittore sano: nell’analisi storica del libro, diversamente da molti testi storiografici reperibili e non, approfondisce mai banalmente le singolarità del famoso cancelliere austriaco Klemens von Metternich, e del feldmaresciallo austriaco Josef Radetzky, entrambi emblemi del primo e del secondo periodo austriaco per diritto e peculiarità, sprezzantemente coloniali. Non stupisce nemmeno l’accostamento azzardato (decisamente veritiero e storicamente comprovato) ad un ipotetico fallimento delle cospirazioni, così definito, dalle torbide congiunture di una tipologia di aristocrazia che non rappresentava all’epoca, nella sua esteriorizzazione e in alcuni suoi rappresentanti, un tratto distintivo degno di tale nome, se non di oligarchia e mescolanza borghese.
Alcuni limiti del mazzinianesimo non si accentuano d’innanzi alle disamine di Carlo Alberto; riguardanti lo stereotipo dell’epoca di nazione o impero, inizialmente, solo, ad appannaggio piemontese. Spicca invece l’ingegno di Camillo Benso di Cavour: con la sua dialettica tutta illuminista, come all’epoca la moda dei potentati sopranazionali imponevano, il conte riuscì a tessere a modo suo, affari e politica.
Un libro nell’insieme — meravigliosamente completi i capitoli riguardanti le “Rose d’Italia. Donne milanesi del Risorgimento” (di Domizia Carafoli, penna illustre de “Il Giornale”), “Magenta la Grande Battaglia” e “I luoghi della memoria” — lascia adito al lettore a una libera interpretazione senza cliché di sorta. Il contributo iconografico, letterario, storico e culturale è in ottima misura proporzionato all’opera; la medesima che vide la città e i valori di Milano, fulcro di un periodo storico da rileggere tuttora, da comprendere sino in fondo. Senza dimenticare che “Il Caffè” letterario o consumato al bancone di un insieme percepito come Italia, non passa mai di moda.
Il Milanese e l’Unità d’Italia
A cura di Marco Valle
Touring Editore. Milano, 2012
Ppgg 160 – Euro 35
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